Over 40: come cambiare lavoro senza problemi?

Crisi di mezza età? Più che altro si tratta di decisioni maturate a seguito di un’attenta riflessione, accompagnate dal desiderio di rimettersi in gioco. Sono tante infatti le persone che arrivano alla soglia dei 40 anni, e la superano, e scelgono di dare una svolta alla propria vita e alla propria carriera. Secondo gli esperti di Jobiri, il career advisor digitale che utilizza l’Intelligenza Artificiale per supportare i professionisti, la cosa importante è non lasciarsi influenzare dagli stereotipi, come il falso mito secondo cui passati i 40 anni le aziende non assumono più. In realtà non è così: il mercato del lavoro è ricco di opportunità anche per gli over 40. Quello che serve è la capacità e la prontezza di coglierle al volo.

Acquisire un nuovo know how

Sono diversi i motivi per cui un quarantenne decide di cambiare lavoro, un licenziamento, situazioni conflittuali nell’ambiente professionale, demotivazione, o semplicemente, voglia di affrontare nuove sfide. Una volta appurata la volontà di cambiare lavoro, si pone un’altra questione e cioè se si desidera rimanere nel medesimo settore di mercato o si propenda per un cambiamento radicale. Chiarito anche questo punto, non resta che seguire alcuni semplici consigli. Secondo gli esperti di Jobiri, per cambiare lavoro a 40 anni con successo bisogna innanzitutto investire sulla propria formazione. Che si tratti di rimettersi sui libri o seguire un corso formativo, il know how è importante per qualsiasi professione.

Ottenere il lavoro desiderato senza ansia e stress

Al contempo, è utile aggiornare il proprio CV, anche alla luce di eventuali risultati raggiunti in ambito formativo, come la frequentazione di scuole o corsi specifici, e coltivare costantemente la propria rete di contatti, perché spesso è proprio tramite le relazioni con gli altri che emergono nuove opportunità di lavoro. Iniziare un percorso di Career Coaching, poi, potrebbe aiutare molto per affrontare un cambiamento lavorativo dopo i 40 anni, permettendo di mettere a fuoco le criticità che non consentono di raggiungere gli obiettivi professionali e individuare le tecniche migliori per ottenere il lavoro desiderato senza ansia e stress.

Mantenere un atteggiamento positivo e proattivo

Non bisogna poi dimenticare l’aspetto psicologico. Per cercare lavoro, spiegano gli esperti di Jobiri, bisogna avere sempre un atteggiamento positivo e proattivo, a prescindere dall’età.
Quando poi si tratta di affrontare una sfida come quella di cambiare professione dopo i 40 anni, vedere il bicchiere mezzo pieno e fare affidamento sulle proprie capacità è ancora più importante.

Salire sul tetto in sicurezza e a norma di legge

Se lavori per una ditta che si occupa di riparazioni e manutenzione e spesso il tuo lavoro consiste nel salire sul tetto, o se direttamente sei il proprietario dell’impresa, sarai certamente a conoscenza del fatto che la normativa vigente preveda l’adozione di determinate misure di sicurezza che possono consentire ai tuoi lavoratori di svolgere le proprie mansioni senza rischiare nulla.

La legge di settore è infatti sempre più precisa ed intenzionata a diminuire il numero di infortuni che ogni anno si presentano, in particolar modo per quel che riguarda le cadute dall’alto che certamente rappresentano un’importante voce in merito.

È lo stesso D.L.81/08 ad aver previsto tutta una serie di comportamenti da mantenere e attrezzatura da utilizzare al fine di poter operare in sicurezza, e ricordiamo che i responsabili lo sono anche in sede penale nel caso di mancata osservanza della legge.

Ecco per questo motivo alcune cose che devi necessariamente tenere a mente quando sali sul tetto di un edificio o quando mandi i tuoi operai a lavorare in alta quota.

L’obbligo di messa in sicurezza

Il D.L. 81/08 prevede che chiunque lavori ad una quota superiore ai 2 metri di altezza debba disporre di attrezzature idonee di sicurezza, dando la precedenza a quelle collettive rispetto quelle individuali.

Proprio il D.L. 81/08 specifica che tutti i lavoratori, siano essi autonomi o dipendenti, che effettuino qualsiasi tipo di manutenzione su edifici di qualsiasi tipo ad una altezza superiore ai due metri rispetto un piano stabile, sono obbligati (per conto del datore di lavoro) ad adoperare tutte quelle attrezzature di sicurezza che possono consentir loro di lavorare senza mettere a rischio la proprio incolumità.

In particolar modo va data priorità ai dispositivi di protezione collettiva prima ancora che a quelli individuali (ad es. sistema di imbracatura o linea vita tetto) che sono in grado impedire fisicamente la caduta dall’alto interrompendola nel caso in cui dovesse verificarsi.

Sempre il D.L. 81/08 individua le tipologie di edificio in cui è necessario predisporre gli adeguati dispositivi di sicurezza, e le tipologie di copertura per le quali i sistemi anticaduta sono necessari.

Vengono inoltre esaminati:

  • Caratteristiche proprie del tetto
  • Le sue condizioni con riferimento alla praticabilità
  • Pendenza e dislivelli
  • Sporgenza
  • Eventuali aspetti strutturali da considerare

Sulla base di queste rilevazioni, il responsabile della sicurezza in cantiere andrà ad individuare i dispositivi di sicurezza più adeguati da installare, così da consentire agli operai di poter lavorare senza andare a mettere a rischio la propria incolumità.

Praticabilità del tetto

Il tetto in cui gli operai sono chiamati a lavorare deve avere un’ottima praticabilità, ovvero essere in grado di sostenere il peso delle persone che vi cammineranno sopra durante le operazioni di lavoro, ma al tempo stesso deve essere dotato di tutti quei sistemi di protezione individuale o collettiva  di cui sopra.

Le due cose infatti vanno di pari passo ed insieme rappresentano un ottimo deterrente per incidenti di qualsiasi tipo, soprattutto quelli che riguardano le eventuali cadute dall’alto.

Le alternative ai dispositivi di protezione individuali o collettivi

È possibile salire sul tetto in assenza di dispositivi di protezione individuali o collettivi? Si, sebbene quella di ricorrere ai dispositivi di protezione sia sempre la strada migliore per raggiungere un livello di sicurezza adeguato.

Ad ogni modo è possibile non ricorrere ai dispositivi di protezione individuali e collettivi se si prevede l’installazione di sistemi di protezione alternativi.

Tra questi i ponteggi, sebbene essi abbiano certamente un costo più elevato, o le linee temporanee. Si tratta di soluzioni alternative che possono essere adottate in casi particolari, e che sono per questo consentite dalla legge.

Grandi dimissioni: siamo sicuri di voler cambiare vita?

Il fenomeno delle Grandi dimissioni è emerso con grande evidenza con la fine della pandemia e la ripresa teorica del lavoro secondo i vecchi canoni.
“Molti dipendenti hanno iniziato a riesaminare, anche in modo radicale, il bilanciamento tra lavoro e vita privata, finendo in molti casi con il dimettersi, alla ricerca di nuovi equilibri maggiormente orientati verso la qualità della seconda”, spiegano Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-managing Partner di Littler Italia. Sebbene in America nuovi studi stiano evidenziando una fascia di ‘pentiti’ (in particolare, uno su quattro), che oggi tornerebbe sui propri passi, il fenomeno delle Grandi Dimissioni non sembra fermarsi. Ma come capire se lasciare il lavoro, magari, per mettersi in proprio, è la decisione giusta?

“Mettersi in proprio non è una scelta adatta a tutti”

“Mettersi in proprio non è una scelta adatta a tutti – chiarisce Nicola Palmieri, Youtube creator e imprenditore digitale -. Se da una parte puoi godere di grande autonomia decisionale ed economica, dall’altra dovrai affrontare un percorso in solitaria”.
In un periodo di burnout e scarsa motivazione, individuare ciò che appassiona può essere un esercizio non semplice. Basti pensare alle proporzioni che sta assumendo il ‘quiet quitting’, soprattutto tra la Generazione Z. Si tratta dell’ultima tendenza a fare il minimo indispensabile al lavoro, fuori dalla logica del sacrificio e degli straordinari. In America il quiet quitting riguarda metà dei dipendenti e in Europa la situazione non è migliore. Secondo un report di Gallup, sarebbero a malapena il 14% i lavoratori che oggi si sentono davvero coinvolti nella propria attività.

Monetizzare le proprie passioni

Capire, poi, quali passioni siano realmente ‘monetizzabili’ è uno step successivo fondamentale, se si vuole davvero cambiare vita.
“Dobbiamo prepararci a smontare e successivamente tentare di migliorare le idee che abbiamo raccolto, per creare qualcosa di unico e mirato su un pubblico specifico. Un percorso che richiede studio, tempo, metodo e la conoscenza di strumenti digitali – continua Palmieri -. Per capire se un’idea vale il rischio di lasciare il lavoro, dobbiamo testarla sui primi clienti con un Mvp (Minimum Viable Product), ossia un prototipo di base per ottenere i feedback iniziali, in grado di guidarci nell’affinamento del progetto”.

Per molti l’impiego da dipendente resta l’alternativa più adeguata

La strada del lavoro autonomo, riporta Adnkronos, è sì stimolante, ma piena di sfide. Perché si dovrà poi creare e valorizzare il proprio personal brand, individuare i giusti canali con cui promuoversi, imparare tecniche di vendita, e accettare i fallimenti. E così per molti l’impiego da dipendente resta l’alternativa più adeguata, senza rinunciare a quel cambio di equilibrio che si fa sempre più urgente e irreversibile. Un aspetto su cui si giocherà la competitività del mercato del lavoro nei prossimi anni.

Cloud ibrido: cosa ne impedisce il successo?

Una nuova ricerca di mercato globale, l’IBM Transformation Index: State of Cloud, condotto da The Harris Poll, rivela che oltre il 77% delle organizzazioni aziendali adotta un approccio cloud ibrido, in grado di aiutare a guidare la trasformazione digitale. La maggior parte delle organizzazioni però sta lottando con la complessità necessaria per far funzionare insieme tutti i loro ambienti cloud. Poiché le organizzazioni devono affrontare lacune di competenze, sfide di sicurezza e ostacoli alla conformità, meno di un quarto degli intervistati in tutto il mondo gestisce i propri ambienti cloud ibridi in modo olistico, il che può creare punti ciechi e mettere a rischio i dati.

Garantire la conformità è troppo difficile

L’indice indica una forte correlazione tra l’adozione del cloud ibrido e il progresso nella trasformazione digitale. Infatti, il 71% degli intervistati pensa che sia difficile realizzare il pieno potenziale di una trasformazione digitale senza disporre di una solida strategia di cloud ibrido. Allo stesso tempo, solo il 27% delle aziende possiede le caratteristiche necessarie per essere considerata ‘avanzata’ nella trasformazione. Le aziende ritengono che garantire la conformità nel cloud sia attualmente troppo difficile, soprattutto perché in tutto il mondo si assiste all’inasprimento dei requisiti normativi.

La mancanza delle competenze ostacola i progressi 

Quando si tratta di gestire le proprie applicazioni cloud, il 69% afferma che il proprio team non ha le competenze necessarie per essere competente. Questo è un ostacolo all’innovazione, con più di un quarto degli intervistati che afferma come la carenza di talenti stia ostacolando gli obiettivi cloud della propria azienda. Queste limitazioni impediscono alle organizzazioni anche di sfruttare il potere delle partnership. Più di un terzo degli intervistati afferma che la mancanza di competenze tecniche li trattiene dall’integrare con i partner dell’ecosistema negli ambienti cloud. Questa sfida è ancora più grande negli Stati Uniti, dove quasi il 40% ammette questa mancanza di competenze indicando una forte necessità di talenti.

Minacce informatiche sempre in agguato

Se oltre il 90% dei servizi finanziari, Tlc e organizzazioni governative adotta strumenti di sicurezza (capacità informatiche riservate, autenticazione a più fattori e altro), permangono lacune che impediscono alle organizzazioni di promuovere l’innovazione. Il 32% degli intervistati cita la sicurezza come la principale barriera per i carichi di lavoro integrati in tutti gli ambienti, e più di un quarto concorda che i problemi di sicurezza rappresentano un ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi di business nel cloud. I problemi di sicurezza possono anche impedire alle organizzazioni di sbloccare il pieno potenziale delle partnership. Potenziali lacune nella sicurezza possono far incombere rischi a terze e quarte parti. La governance dei dati (49%) e la sicurezza informatica (47%) sono quindi le principali sfide per integrare completamente l’ecosistema aziendale nel cloud.

Marketing: oggi le competenze richieste sono più digital e social 

Come sono cambiate le competenze dei professionisti del marketing a livello globale dal 2015 a oggi, e quali sono le capacità necessarie per la carriera? Lo ha scoperto LinkedIn, che con la sua ricerca Skills Evolution evidenzia come le principali capacità richieste ai professionisti del marketing oggi riguardino ambiti quali Digital Marketing, Social Media Marketing e Search Engine Optimisation. Nel complesso, secondo l’analisi di LinkedIn, in Italia dal 2015 le competenze in ambito marketing sono cambiate in media del 50%, e nella maggior parte dei casi il ritmo del cambiamento è stato accelerato durante la pandemia.

Le skill necessarie per affrontare condizioni potenzialmente difficili

Oggi lo scenario del mercato del lavoro è cambiato radicalmente, e alla luce di un clima di incertezza globale, tra inflazione, possibile recessione e licenziamenti, le persone sono sempre meno fiduciose nel futuro. 
“Con l’incertezza economica che incombe, i marketer hanno l’opportunità di dimostrare alle aziende di possedere le skill necessarie per affrontare condizioni potenzialmente difficili – commenta Tom Pepper, Senior Director, Emea & Latam, LinkedIn Marketing Solutions -. Poiché le aziende cercano di fare di più con meno, i nostri dati indicano una crescente domanda di ‘marketer moderni e pieni di risorse’: professionisti del marketing con un set di competenze specifiche che possono combinare creatività ed efficacia in aree chiave come il marketing digitale”. 

Una carriera a prova di futuro

“È importante che i marketer continuino a sviluppare il loro set di competenze in modo da rimanere agili e supportare le aziende ad adattarsi nei mesi a venire”, aggiunge Latam.
Per chi cerca un impiego, questo significa che essere in grado di adattarsi e mettere in luce le skill richieste dai datori di lavoro oggi è più importante che mai. La buona notizia è che grazie a LinkedIn è possibile identificare le competenze che aiutano a rendere le carriere a prova di futuro e avvalersi di risorse e strumenti per supportare questo processo. Obiettivo finale della Skills Evolution è proprio quello di restituire un po’ di ottimismo rispetto al futuro, e ritrovare la fiducia per andare avanti nelle proprie carriere.

Dal Business Planning di ieri al Sales Management di oggi

Dai dati di LinkedIn emergono le 10 principali competenze di marketing presenti nei profili degli utenti della piattaforma nel 2015, e mostrano l’effettivo cambiamento avvenuto nel corso degli anni.
Si tratta di Business Planning, Marketing Strategy, Business Strategy , Sales Management, Public Relations, Negotiation, Marketing, Social Media, Sales, Social Media Marketing. Nel 2021, le 10 principali competenze di marketing sono invece Sales Management, Marketing Strategy, Sales, Marketing, Problem Solving, Commerce, Strategy, Business Development, Business Strategy, e Business Planning. Per supportare l’apprendimento delle skill più richieste, LinkedIn rende disponibili i corsi di LinkedIn Learning relativi a tali competenze, accessibili gratuitamente fino al 30 settembre 2022.

Terziario lombardo: crescono Servizi e Commercio al dettaglio

Nel secondo trimestre 2022 per le imprese lombarde del terziario prosegue la fase di crescita del fatturato. Secondo i risultati dell’indagine di Unioncamere Lombardia, nei Servizi la variazione su base annua si conferma sopra il 20% per il terzo trimestre consecutivo (+20,8%), mentre nel Commercio al dettaglio si attesta al +5,4%. Le variazioni congiunturali rispetto al trimestre precedente forniscono un’indicazione puntuale della dinamica più recente, e in entrambi i comparti il segnale è di un’accelerazione dei ritmi di crescita. Nei Servizi l’incremento congiunturale raggiunge infatti il +5,7%, e nel Commercio al dettaglio il +1,5%.

Fatturato in ripresa per entrambi i comparti 

La diversa situazione dei due comparti è evidente anche dal numero indice del fatturato, calcolato ponendo pari a 100 il livello medio del 2010, con i Servizi che raggiungono un nuovo massimo della serie storica (123,7) e il Commercio al dettaglio (96,6) che recupera i livelli di 10 anni fa. Per i Servizi la crescita di fatturato su base annua è molto marcata nelle attività di alloggio e ristorazione (+52,3%), che nello stesso trimestre 2021 ancora risentivano delle chiusure e restrizioni anti-Covid. Significativa anche la crescita dei Servizi alle persone (+24,7%), che hanno finalmente recuperato i livelli del 2019, e dei Servizi alle imprese (+15,5%), che toccano un nuovo massimo storico. Più ridotta la crescita per il Commercio all’ingrosso (+11,5%), che dopo aver a lungo trainato la performance dei Servizi in Lombardia, mostra una battuta d’arresto rispetto ai valori del primo trimestre.

Prosegue il calo strutturale dei negozi alimentari

Nel Commercio al dettaglio crescono soprattutto i negozi non alimentari (+8,7% su base annua), che hanno mostrato una buona capacità di recupero dopo i forti cali registrati nel periodo dell’emergenza sanitaria. Più limitato l’incremento per gli esercizi non specializzati (+2,4%), che comprendono minimarket e supermercati, e che non hanno avuto conseguenze negative dalla pandemia: il numero indice è infatti sui valori massimi degli ultimi 14 anni. Prosegue poi il calo strutturale dei negozi alimentari prevalentemente di piccole dimensioni (-0,6%).

I listini sono in forte tensione

Pur con differenti andamenti, entrambi i comparti stanno quindi sperimentando una fase di crescita intensa del fatturato, che risente però in maniera decisiva delle dinamiche di prezzo. I listini sono infatti in forte tensione, con incrementi congiunturali del +2,7% per i servizi e del +4,3% per il Commercio al dettaglio. I maggiori aumenti si riscontrano negli esercizi alimentari, nelle attività di alloggio e ristorazione e nel commercio all’ingrosso. Proprio i timori degli effetti dell’inflazione sulla domanda, che si somma alla crescita dei costi e alle altre incognite della situazione nazionale e internazionale, si riflettono in un peggioramento delle aspettative degli imprenditori. Fanno eccezione le attività legate al Turismo, per le quali le attese sulla stagione estiva sono positive.

Shopping compulsivo o prudente? I profili dei consumatori nel 2022

Come spendiamo i nostri averi? L’ha scoperto il report di Euromonitor International dedicato alle abitudini d’acquisto della popolazione mondiale. Di fatto gli shopping addicted (gli spendaccioni) salgono al 10% della popolazione (5% nel 2018), ma la parte del leone la fanno ancora i ‘tradizionalisti’ (18%), che costituiscono la fetta più grande della torta dello shopping globale. Oltre a mantenere un ‘basso profilo’ sui social, non si fanno influenzare da influencer o brand online, e l’87% non fa acquisti compulsivi. Il 78% non va per negozi se non ha bisogno di nulla, ma li preferisce allo shopping online, anche se i canali web sono usati dal 42% di loro.

Dagli undaunted strivers agli ottimisti equilibrati

Aumentano gli ‘avidi’ della propria immagine e del proprio status, affamati di nuovi trend, gli undaunted strivers (16% e 13% nel 2018). L’88% punta a prodotti e servizi su misura e pensa che il giudizio degli altri sia importante, l’87% segue i brand preferiti online, l’86% vuole distinguersi dalla massa e condivide sui social il proprio look e gli acquisti. Provano nuovi prodotti, ma amano soprattutto comprare ‘esperienze’ (86%). Crescono però anche gli ‘ottimisti equilibrati’ (14%, erano l’8%), che ambiscono a uno stile di vita stabile e amano pianificare il futuro. Nelle priorità di shopping l’81% pensa a sé, il 65% alle attività preferite e il 63% al partner. Il 58% di loro punta all’affare, il 38% ai prodotti di seconda mano.

Meno attivisti responsabili, più prudenti pianificatori

In calo gli ‘attivisti responsabili’ (14% vs 17%).  Preferiscono prodotti a connotazione ecocompatibile e danno importanza al rapporto qualità-prezzo. ‘Io posso cambiare le cose’ è il loro motto, consci che i comportamenti lasciano un’impronta ambientale e sociale (83%). Il 78% è preoccupato per i cambiamenti climatici, il 69% compra da company ‘trasparenti’ e il 25% boicotta i brand che non condividono i loro intenti politici e sociali. In aumento invece i consumatori attenti a spendere, i ‘prudenti pianificatori’ (13% vs 9%). Guardano al futuro, mettono i soldi da parte: lo shopping compulsivo non fa per loro, mostrano elevata fedeltà a marchi e prodotti (85%), provano difficilmente novità, e preferiscono sconti e offerte.

Minimalisti o conservatori intelligenti?

Spuntano per la prima volta i minimalisti (9%). ‘Scelgo le cose semplici’, dicono, perché sono consumatori green: il 50% taglia il superfluo e il 73% riduce gli scarti, il 71% vuole avere un impatto positivo sull’ambiente, il 55% mette da parte i soldi per il futuro, e il 52% ripara gli oggetti. L’ultima fetta è formata dai ‘conservatori casalinghi’ (6% vs 16%). Felici a casa propria, l’81% ama cucinare, il 52% lavora da casa il weekend e ha un legame molto stretto tra lavoro e vita personale. Vanno per mercatini, il 55% non consulta internet per scegliere cosa comprare e il 57% non compara neanche i prezzi online. Ma per tutti c’è un comportamento comune, riporta Ansa: guardare meno a celebrities e blogger/influencers preferendo i consigli di amici e parenti. 

I prezzi aumentano, ma con la sicurezza alimentare non si scherza

Il monito arriva dalla Coldiretti, a seguito del rapporto che evidenzia quanto peseranno sui bilanci delle famiglie italiane – circa 9 miliardi di euro – gli aumenti della spesa alimentare. Rincari dovuti sostanzialmente alla crisi in Ucraina e all’aumento dell’inflazione, a cui poi si è aggiunta pure la siccità. Per far fronte alla carenza di diverse materie prime, il nostro paese deve acquistare prodotti agroalimentari dell’estero, dal grano per il pane al mais per l’alimentazione degli animali. Le importazioni sono cresciute in valore di quasi un terzo (+29%), aprendo la strada al rischio di un pericoloso abbassamento degli standard di qualità e di sicurezza alimentare, secondo l’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat relativi ai primi cinque mesi dell’anno. La situazione è pesante soprattutto sul fronte dei cereali a causa – spiega Coldiretti – dei contraccolpi della crisi globale scatenate dal conflitto in Ucraina con le importazioni di mais che sono aumentate in valore addirittura del 66%, spinte dai rincari e dalle speculazioni, e quelle di grano tenero per il pane sono cresciute della stessa percentuale – sottolinea Coldiretti -, mentre per l’olio di girasole si arriva al +83%. Ma crescono anche le importazioni di olio di palma (+35%), favorite dal fatto che in Italia viene ora consentito di non indicare nelle etichette degli alimenti la provenienza degli olii di semi indicati, mettendo a rischio la trasparenza dell’informazione ai consumatori.

Sei volte più pericolosi di quelli Made in Italy

Il problema è che i cibi e le bevande stranieri sono sei volte più pericolosi di quelli Made in Italy con il numero di prodotti agroalimentari extracomunitari con residui chimici irregolari che è stato pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% e ad appena lo 0,9% dell’Italia, secondo l’analisi della Coldiretti su dati Efsa. Deve dunque preoccupare il rischioso tentativo di strumentalizzare gli effetti della guerra per ridurre le garanzie qualitative e di sicurezza degli alimenti ma anche la trasparenza dell’informazione ai consumatori, con la richiesta di deroghe alla legislazione vigente, dall’innalzamento dei limiti massimi ai residui chimici presenti negli alimenti introdotta in Spagna per alcuni principi attivi alla richiesta di utilizzo degli ogm non autorizzati, fino alla possibilità di utilizzare olio di palma in sostituzione di quello di girasole senza indicarlo esplicitamente in etichetta, concessa con una circolare dal Ministero dello Sviluppo economico in Italia.

Stesso standard per tutti i prodotti

“In un momento delicato per il Paese, tra guerra, siccità e incertezza politica, l’Italia non può accettare passi indietro sulla sicurezza alimentare che mettono a rischio la salute dei consumatori ma anche la competitività del Made in Italy” ha dichiarato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “occorre assicurare che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute. Ma bisogna anche fermare ogni tentativo di banalizzazione ed omologazione del modello agricolo italiano ed europeo, dicendo quindi “No” ai finanziamenti alla produzione di carne in laboratorio o all’introduzione di etichette a semaforo quali il Nutriscore”.

Welfare: assegno unico Rc e Naspi i bonus più richiesti

BonusX, startup innovativa a vocazione sociale, traccia l’identikit del cittadino che nel 2022 fa domanda dei bonus statali: tra 30 e 40 anni, il 56% è donna e chiede soprattutto Assegno Unico, Reddito di Cittadinanza e NASpI. Dall’indagine di Bonus X, emerge inoltre che gli uomini puntano a richiedere maggiormente il bonus per disoccupati (NASpI), mentre l’Assegno Unico viene richiesto principalmente dalle donne. Le donne presenti in piattaforma per la richiesta di agevolazioni sono infatti oltre 35.000, e se tra i servizi più richiesti ci sono Assegno Unico e Reddito di Cittadinanza, le donne tendono a richiederlo significativamente più degli uomini.

Le donne amministrano la parte burocratica della vita quotidiana

Il fatto che siano le donne a richiedere maggiormente bonus e agevolazioni fa intuire che sono proprio loro ad amministrare la parte burocratica della vita quotidiana. L’identikit realizzato da BonusX corrisponde a un profilo tra 30-40 anni, con uno o più figli, percepisce la burocrazia come sfiancante e ha bisogno di richiedere sussidi pubblici per poter avere un aiuto concreto. A partire dal mese di maggio, BonusX ha anche integrato la possibilità di gestire in piattaforma le dichiarazioni dei redditi per persone fisiche, in modo da favorire anche richiesta e accesso ad agevolazioni di natura fiscale. Su questo fronte, al netto delle detrazioni sanitarie, risultano particolarmente richieste le detrazioni per le locazioni abitative.

Tra il 20%-60% degli aventi diritto non riesce a ottenere le agevolazioni

Nell’Unione Europea, tra il 20% e il 60% degli aventi diritto non riesce però a ottenere le agevolazioni di cui ha bisogno. Questi dati dimostrano che la complessità della burocrazia non aiuta i cittadini, rendendo ancora più difficile la richiesta di aiuti fondamentali per il sostentamento dell’individuo o la famiglia.
“Poter capire quali bonus richiedere, quali sono i requisiti fondamentali e, soprattutto, come poterlo richiedere per tempo, sono solo alcune delle problematiche che il cittadino italiano deve affrontare quotidianamente. E, complice la caoticità del sistema e la mancata digitalizzazione degli sportelli, sono ancora tanti i cittadini che rinunciano alla richiesta di bonus e agevolazioni”, si legge nello studio di BonusX.

La digitalizzazione della burocrazia è fondamentale

“L’età media del cittadino che richiede questa tipologia di bonus racconta molto della nostra società: dai 30 ai 40 anni, persone che sono ormai oltre la tipica fascia di età degli studi universitari e vorrebbero avere indipendenza economica e creare una propria famiglia”, commenta Giovanni Pizza, ceo di BonusX. Avere accesso alle agevolazioni del welfare pubblico è infatti un diritto di ogni cittadino, riferisca riferisce Adnkronos. “La digitalizzazione della burocrazia è fondamentale – aggiunge Fabrizio Pinci, Coo di BonusX – per una maggior trasparenza, per aiutare i cittadini a risparmiare tempo da dedicare a sé stessi e alla propria famiglia, avere una maggior capacità di spesa, vivere più serenamente la vita di tutti i giorni e avere accesso a formazione e altre opportunità di riscatto sociale”.

La prossima auto per il 41,3% degli italiani sarà ibrida

L’auto ibrida conquista gli italiani, che nel 41,3% dei casi sceglieranno di acquistarla quando dovranno cambiare automobile. Secondo un’inchiesta Doxa, dal titolo Noleggio ed elettrificazione nella mobilità del futuro, realizzata per AMINA (Associazione Mediatori Italiani Noleggio Auto), dopo l’auto ibrida, con una quota del 29,3%, gli italiani sceglieranno un’auto elettrica, e il 23,3% di loro una a motore tradizionale. Se si considerano le modalità di acquisizione della prossima auto la proprietà resta quindi quella preferita (65,9%), ma il noleggio a lungo termine guadagna quote di mercato anche tra gli utenti privati, attestandosi al 28%. Il 6,1% degli italiani ha infatti in programma di passare all’uso di servizi di mobilità in sostituzione dell’auto in proprietà.

Il noleggio a lungo termine è valutato positivamente

Per quanto riguarda la valutazione espressa sulla conoscenza del servizio di noleggio a lungo termine, il 74% ha fornito una valutazione positiva, suddivisa tra sufficiente (36%), buona (32%), ottima (6%).
Di contro, il 26% ha fornito una valutazione negativa, suddivisa tra una conoscenza mediocre (20%) e nulla (6%). Grazie ai dati elaborati nell’inchiesta è stato possibile anche realizzare un identikit di chi conosce meglio il noleggio a lungo termine: uomo, tra 35 e 44 anni, con un alto livello di istruzione e proveniente da Sud e Isole. Lo stesso identikit corrisponde al profilo del maggiore interessato al passaggio ai servizi di mobilità in sostituzione dell’auto in proprietà.

Poco ferrati sulle nuove tecnologie del settore automobilistico

L’inchiesta offre anche una panoramica riguardo al livello di conoscenza dichiarato dagli intervistati in merito alle nuove tecnologie disponibili nel settore automobilistico. Per quanto riguarda il full hybrid, il livello di conoscenza dichiarato ottiene una valutazione pari a 6,2 (in una scala da un minimo di 1 a un massimo di 10) e quindi appena sopra la sufficienza. Sotto la sufficienza si pone invece il livello di conoscenza del Mild Hybrid (5,2), mentre la tecnologia Plug-In Hybrid ottiene una valutazione pari a 5,5. Si torna sopra la sufficienza con la trazione elettrica, il cui livello di conoscenza è stato valutato con un punteggio pari a 6,2. Molto più bassa la conoscenza della trazione a idrogeno (4,7).

Passaggio alla mobilità elettrica: quanti anni sono necessari?

Quanto al numero di anni necessari per completare il passaggio alla mobilità elettrica, il 40% degli italiani pensa che ci vorranno da cinque a dieci anni, mentre per il 25% ci vorranno da dieci a venti anni. I più ottimisti hanno indicato due anni (5%), e coloro che hanno indicato un periodo di tempo tra due e cinque anni sono il 19%. Ma ci sono anche coloro che hanno espresso una visione pessimistica dei tempi necessari: il 7% ha dichiarato che saranno necessari più di venti anni, mentre per il 4% questo passaggio non si completerà mai.