Grandi dimissioni: siamo sicuri di voler cambiare vita?

Il fenomeno delle Grandi dimissioni è emerso con grande evidenza con la fine della pandemia e la ripresa teorica del lavoro secondo i vecchi canoni.
“Molti dipendenti hanno iniziato a riesaminare, anche in modo radicale, il bilanciamento tra lavoro e vita privata, finendo in molti casi con il dimettersi, alla ricerca di nuovi equilibri maggiormente orientati verso la qualità della seconda”, spiegano Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-managing Partner di Littler Italia. Sebbene in America nuovi studi stiano evidenziando una fascia di ‘pentiti’ (in particolare, uno su quattro), che oggi tornerebbe sui propri passi, il fenomeno delle Grandi Dimissioni non sembra fermarsi. Ma come capire se lasciare il lavoro, magari, per mettersi in proprio, è la decisione giusta?

“Mettersi in proprio non è una scelta adatta a tutti”

“Mettersi in proprio non è una scelta adatta a tutti – chiarisce Nicola Palmieri, Youtube creator e imprenditore digitale -. Se da una parte puoi godere di grande autonomia decisionale ed economica, dall’altra dovrai affrontare un percorso in solitaria”.
In un periodo di burnout e scarsa motivazione, individuare ciò che appassiona può essere un esercizio non semplice. Basti pensare alle proporzioni che sta assumendo il ‘quiet quitting’, soprattutto tra la Generazione Z. Si tratta dell’ultima tendenza a fare il minimo indispensabile al lavoro, fuori dalla logica del sacrificio e degli straordinari. In America il quiet quitting riguarda metà dei dipendenti e in Europa la situazione non è migliore. Secondo un report di Gallup, sarebbero a malapena il 14% i lavoratori che oggi si sentono davvero coinvolti nella propria attività.

Monetizzare le proprie passioni

Capire, poi, quali passioni siano realmente ‘monetizzabili’ è uno step successivo fondamentale, se si vuole davvero cambiare vita.
“Dobbiamo prepararci a smontare e successivamente tentare di migliorare le idee che abbiamo raccolto, per creare qualcosa di unico e mirato su un pubblico specifico. Un percorso che richiede studio, tempo, metodo e la conoscenza di strumenti digitali – continua Palmieri -. Per capire se un’idea vale il rischio di lasciare il lavoro, dobbiamo testarla sui primi clienti con un Mvp (Minimum Viable Product), ossia un prototipo di base per ottenere i feedback iniziali, in grado di guidarci nell’affinamento del progetto”.

Per molti l’impiego da dipendente resta l’alternativa più adeguata

La strada del lavoro autonomo, riporta Adnkronos, è sì stimolante, ma piena di sfide. Perché si dovrà poi creare e valorizzare il proprio personal brand, individuare i giusti canali con cui promuoversi, imparare tecniche di vendita, e accettare i fallimenti. E così per molti l’impiego da dipendente resta l’alternativa più adeguata, senza rinunciare a quel cambio di equilibrio che si fa sempre più urgente e irreversibile. Un aspetto su cui si giocherà la competitività del mercato del lavoro nei prossimi anni.

Cloud ibrido: cosa ne impedisce il successo?

Una nuova ricerca di mercato globale, l’IBM Transformation Index: State of Cloud, condotto da The Harris Poll, rivela che oltre il 77% delle organizzazioni aziendali adotta un approccio cloud ibrido, in grado di aiutare a guidare la trasformazione digitale. La maggior parte delle organizzazioni però sta lottando con la complessità necessaria per far funzionare insieme tutti i loro ambienti cloud. Poiché le organizzazioni devono affrontare lacune di competenze, sfide di sicurezza e ostacoli alla conformità, meno di un quarto degli intervistati in tutto il mondo gestisce i propri ambienti cloud ibridi in modo olistico, il che può creare punti ciechi e mettere a rischio i dati.

Garantire la conformità è troppo difficile

L’indice indica una forte correlazione tra l’adozione del cloud ibrido e il progresso nella trasformazione digitale. Infatti, il 71% degli intervistati pensa che sia difficile realizzare il pieno potenziale di una trasformazione digitale senza disporre di una solida strategia di cloud ibrido. Allo stesso tempo, solo il 27% delle aziende possiede le caratteristiche necessarie per essere considerata ‘avanzata’ nella trasformazione. Le aziende ritengono che garantire la conformità nel cloud sia attualmente troppo difficile, soprattutto perché in tutto il mondo si assiste all’inasprimento dei requisiti normativi.

La mancanza delle competenze ostacola i progressi 

Quando si tratta di gestire le proprie applicazioni cloud, il 69% afferma che il proprio team non ha le competenze necessarie per essere competente. Questo è un ostacolo all’innovazione, con più di un quarto degli intervistati che afferma come la carenza di talenti stia ostacolando gli obiettivi cloud della propria azienda. Queste limitazioni impediscono alle organizzazioni anche di sfruttare il potere delle partnership. Più di un terzo degli intervistati afferma che la mancanza di competenze tecniche li trattiene dall’integrare con i partner dell’ecosistema negli ambienti cloud. Questa sfida è ancora più grande negli Stati Uniti, dove quasi il 40% ammette questa mancanza di competenze indicando una forte necessità di talenti.

Minacce informatiche sempre in agguato

Se oltre il 90% dei servizi finanziari, Tlc e organizzazioni governative adotta strumenti di sicurezza (capacità informatiche riservate, autenticazione a più fattori e altro), permangono lacune che impediscono alle organizzazioni di promuovere l’innovazione. Il 32% degli intervistati cita la sicurezza come la principale barriera per i carichi di lavoro integrati in tutti gli ambienti, e più di un quarto concorda che i problemi di sicurezza rappresentano un ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi di business nel cloud. I problemi di sicurezza possono anche impedire alle organizzazioni di sbloccare il pieno potenziale delle partnership. Potenziali lacune nella sicurezza possono far incombere rischi a terze e quarte parti. La governance dei dati (49%) e la sicurezza informatica (47%) sono quindi le principali sfide per integrare completamente l’ecosistema aziendale nel cloud.

Marketing: oggi le competenze richieste sono più digital e social 

Come sono cambiate le competenze dei professionisti del marketing a livello globale dal 2015 a oggi, e quali sono le capacità necessarie per la carriera? Lo ha scoperto LinkedIn, che con la sua ricerca Skills Evolution evidenzia come le principali capacità richieste ai professionisti del marketing oggi riguardino ambiti quali Digital Marketing, Social Media Marketing e Search Engine Optimisation. Nel complesso, secondo l’analisi di LinkedIn, in Italia dal 2015 le competenze in ambito marketing sono cambiate in media del 50%, e nella maggior parte dei casi il ritmo del cambiamento è stato accelerato durante la pandemia.

Le skill necessarie per affrontare condizioni potenzialmente difficili

Oggi lo scenario del mercato del lavoro è cambiato radicalmente, e alla luce di un clima di incertezza globale, tra inflazione, possibile recessione e licenziamenti, le persone sono sempre meno fiduciose nel futuro. 
“Con l’incertezza economica che incombe, i marketer hanno l’opportunità di dimostrare alle aziende di possedere le skill necessarie per affrontare condizioni potenzialmente difficili – commenta Tom Pepper, Senior Director, Emea & Latam, LinkedIn Marketing Solutions -. Poiché le aziende cercano di fare di più con meno, i nostri dati indicano una crescente domanda di ‘marketer moderni e pieni di risorse’: professionisti del marketing con un set di competenze specifiche che possono combinare creatività ed efficacia in aree chiave come il marketing digitale”. 

Una carriera a prova di futuro

“È importante che i marketer continuino a sviluppare il loro set di competenze in modo da rimanere agili e supportare le aziende ad adattarsi nei mesi a venire”, aggiunge Latam.
Per chi cerca un impiego, questo significa che essere in grado di adattarsi e mettere in luce le skill richieste dai datori di lavoro oggi è più importante che mai. La buona notizia è che grazie a LinkedIn è possibile identificare le competenze che aiutano a rendere le carriere a prova di futuro e avvalersi di risorse e strumenti per supportare questo processo. Obiettivo finale della Skills Evolution è proprio quello di restituire un po’ di ottimismo rispetto al futuro, e ritrovare la fiducia per andare avanti nelle proprie carriere.

Dal Business Planning di ieri al Sales Management di oggi

Dai dati di LinkedIn emergono le 10 principali competenze di marketing presenti nei profili degli utenti della piattaforma nel 2015, e mostrano l’effettivo cambiamento avvenuto nel corso degli anni.
Si tratta di Business Planning, Marketing Strategy, Business Strategy , Sales Management, Public Relations, Negotiation, Marketing, Social Media, Sales, Social Media Marketing. Nel 2021, le 10 principali competenze di marketing sono invece Sales Management, Marketing Strategy, Sales, Marketing, Problem Solving, Commerce, Strategy, Business Development, Business Strategy, e Business Planning. Per supportare l’apprendimento delle skill più richieste, LinkedIn rende disponibili i corsi di LinkedIn Learning relativi a tali competenze, accessibili gratuitamente fino al 30 settembre 2022.

Terziario lombardo: crescono Servizi e Commercio al dettaglio

Nel secondo trimestre 2022 per le imprese lombarde del terziario prosegue la fase di crescita del fatturato. Secondo i risultati dell’indagine di Unioncamere Lombardia, nei Servizi la variazione su base annua si conferma sopra il 20% per il terzo trimestre consecutivo (+20,8%), mentre nel Commercio al dettaglio si attesta al +5,4%. Le variazioni congiunturali rispetto al trimestre precedente forniscono un’indicazione puntuale della dinamica più recente, e in entrambi i comparti il segnale è di un’accelerazione dei ritmi di crescita. Nei Servizi l’incremento congiunturale raggiunge infatti il +5,7%, e nel Commercio al dettaglio il +1,5%.

Fatturato in ripresa per entrambi i comparti 

La diversa situazione dei due comparti è evidente anche dal numero indice del fatturato, calcolato ponendo pari a 100 il livello medio del 2010, con i Servizi che raggiungono un nuovo massimo della serie storica (123,7) e il Commercio al dettaglio (96,6) che recupera i livelli di 10 anni fa. Per i Servizi la crescita di fatturato su base annua è molto marcata nelle attività di alloggio e ristorazione (+52,3%), che nello stesso trimestre 2021 ancora risentivano delle chiusure e restrizioni anti-Covid. Significativa anche la crescita dei Servizi alle persone (+24,7%), che hanno finalmente recuperato i livelli del 2019, e dei Servizi alle imprese (+15,5%), che toccano un nuovo massimo storico. Più ridotta la crescita per il Commercio all’ingrosso (+11,5%), che dopo aver a lungo trainato la performance dei Servizi in Lombardia, mostra una battuta d’arresto rispetto ai valori del primo trimestre.

Prosegue il calo strutturale dei negozi alimentari

Nel Commercio al dettaglio crescono soprattutto i negozi non alimentari (+8,7% su base annua), che hanno mostrato una buona capacità di recupero dopo i forti cali registrati nel periodo dell’emergenza sanitaria. Più limitato l’incremento per gli esercizi non specializzati (+2,4%), che comprendono minimarket e supermercati, e che non hanno avuto conseguenze negative dalla pandemia: il numero indice è infatti sui valori massimi degli ultimi 14 anni. Prosegue poi il calo strutturale dei negozi alimentari prevalentemente di piccole dimensioni (-0,6%).

I listini sono in forte tensione

Pur con differenti andamenti, entrambi i comparti stanno quindi sperimentando una fase di crescita intensa del fatturato, che risente però in maniera decisiva delle dinamiche di prezzo. I listini sono infatti in forte tensione, con incrementi congiunturali del +2,7% per i servizi e del +4,3% per il Commercio al dettaglio. I maggiori aumenti si riscontrano negli esercizi alimentari, nelle attività di alloggio e ristorazione e nel commercio all’ingrosso. Proprio i timori degli effetti dell’inflazione sulla domanda, che si somma alla crescita dei costi e alle altre incognite della situazione nazionale e internazionale, si riflettono in un peggioramento delle aspettative degli imprenditori. Fanno eccezione le attività legate al Turismo, per le quali le attese sulla stagione estiva sono positive.

Shopping compulsivo o prudente? I profili dei consumatori nel 2022

Come spendiamo i nostri averi? L’ha scoperto il report di Euromonitor International dedicato alle abitudini d’acquisto della popolazione mondiale. Di fatto gli shopping addicted (gli spendaccioni) salgono al 10% della popolazione (5% nel 2018), ma la parte del leone la fanno ancora i ‘tradizionalisti’ (18%), che costituiscono la fetta più grande della torta dello shopping globale. Oltre a mantenere un ‘basso profilo’ sui social, non si fanno influenzare da influencer o brand online, e l’87% non fa acquisti compulsivi. Il 78% non va per negozi se non ha bisogno di nulla, ma li preferisce allo shopping online, anche se i canali web sono usati dal 42% di loro.

Dagli undaunted strivers agli ottimisti equilibrati

Aumentano gli ‘avidi’ della propria immagine e del proprio status, affamati di nuovi trend, gli undaunted strivers (16% e 13% nel 2018). L’88% punta a prodotti e servizi su misura e pensa che il giudizio degli altri sia importante, l’87% segue i brand preferiti online, l’86% vuole distinguersi dalla massa e condivide sui social il proprio look e gli acquisti. Provano nuovi prodotti, ma amano soprattutto comprare ‘esperienze’ (86%). Crescono però anche gli ‘ottimisti equilibrati’ (14%, erano l’8%), che ambiscono a uno stile di vita stabile e amano pianificare il futuro. Nelle priorità di shopping l’81% pensa a sé, il 65% alle attività preferite e il 63% al partner. Il 58% di loro punta all’affare, il 38% ai prodotti di seconda mano.

Meno attivisti responsabili, più prudenti pianificatori

In calo gli ‘attivisti responsabili’ (14% vs 17%).  Preferiscono prodotti a connotazione ecocompatibile e danno importanza al rapporto qualità-prezzo. ‘Io posso cambiare le cose’ è il loro motto, consci che i comportamenti lasciano un’impronta ambientale e sociale (83%). Il 78% è preoccupato per i cambiamenti climatici, il 69% compra da company ‘trasparenti’ e il 25% boicotta i brand che non condividono i loro intenti politici e sociali. In aumento invece i consumatori attenti a spendere, i ‘prudenti pianificatori’ (13% vs 9%). Guardano al futuro, mettono i soldi da parte: lo shopping compulsivo non fa per loro, mostrano elevata fedeltà a marchi e prodotti (85%), provano difficilmente novità, e preferiscono sconti e offerte.

Minimalisti o conservatori intelligenti?

Spuntano per la prima volta i minimalisti (9%). ‘Scelgo le cose semplici’, dicono, perché sono consumatori green: il 50% taglia il superfluo e il 73% riduce gli scarti, il 71% vuole avere un impatto positivo sull’ambiente, il 55% mette da parte i soldi per il futuro, e il 52% ripara gli oggetti. L’ultima fetta è formata dai ‘conservatori casalinghi’ (6% vs 16%). Felici a casa propria, l’81% ama cucinare, il 52% lavora da casa il weekend e ha un legame molto stretto tra lavoro e vita personale. Vanno per mercatini, il 55% non consulta internet per scegliere cosa comprare e il 57% non compara neanche i prezzi online. Ma per tutti c’è un comportamento comune, riporta Ansa: guardare meno a celebrities e blogger/influencers preferendo i consigli di amici e parenti. 

Welfare: assegno unico Rc e Naspi i bonus più richiesti

BonusX, startup innovativa a vocazione sociale, traccia l’identikit del cittadino che nel 2022 fa domanda dei bonus statali: tra 30 e 40 anni, il 56% è donna e chiede soprattutto Assegno Unico, Reddito di Cittadinanza e NASpI. Dall’indagine di Bonus X, emerge inoltre che gli uomini puntano a richiedere maggiormente il bonus per disoccupati (NASpI), mentre l’Assegno Unico viene richiesto principalmente dalle donne. Le donne presenti in piattaforma per la richiesta di agevolazioni sono infatti oltre 35.000, e se tra i servizi più richiesti ci sono Assegno Unico e Reddito di Cittadinanza, le donne tendono a richiederlo significativamente più degli uomini.

Le donne amministrano la parte burocratica della vita quotidiana

Il fatto che siano le donne a richiedere maggiormente bonus e agevolazioni fa intuire che sono proprio loro ad amministrare la parte burocratica della vita quotidiana. L’identikit realizzato da BonusX corrisponde a un profilo tra 30-40 anni, con uno o più figli, percepisce la burocrazia come sfiancante e ha bisogno di richiedere sussidi pubblici per poter avere un aiuto concreto. A partire dal mese di maggio, BonusX ha anche integrato la possibilità di gestire in piattaforma le dichiarazioni dei redditi per persone fisiche, in modo da favorire anche richiesta e accesso ad agevolazioni di natura fiscale. Su questo fronte, al netto delle detrazioni sanitarie, risultano particolarmente richieste le detrazioni per le locazioni abitative.

Tra il 20%-60% degli aventi diritto non riesce a ottenere le agevolazioni

Nell’Unione Europea, tra il 20% e il 60% degli aventi diritto non riesce però a ottenere le agevolazioni di cui ha bisogno. Questi dati dimostrano che la complessità della burocrazia non aiuta i cittadini, rendendo ancora più difficile la richiesta di aiuti fondamentali per il sostentamento dell’individuo o la famiglia.
“Poter capire quali bonus richiedere, quali sono i requisiti fondamentali e, soprattutto, come poterlo richiedere per tempo, sono solo alcune delle problematiche che il cittadino italiano deve affrontare quotidianamente. E, complice la caoticità del sistema e la mancata digitalizzazione degli sportelli, sono ancora tanti i cittadini che rinunciano alla richiesta di bonus e agevolazioni”, si legge nello studio di BonusX.

La digitalizzazione della burocrazia è fondamentale

“L’età media del cittadino che richiede questa tipologia di bonus racconta molto della nostra società: dai 30 ai 40 anni, persone che sono ormai oltre la tipica fascia di età degli studi universitari e vorrebbero avere indipendenza economica e creare una propria famiglia”, commenta Giovanni Pizza, ceo di BonusX. Avere accesso alle agevolazioni del welfare pubblico è infatti un diritto di ogni cittadino, riferisca riferisce Adnkronos. “La digitalizzazione della burocrazia è fondamentale – aggiunge Fabrizio Pinci, Coo di BonusX – per una maggior trasparenza, per aiutare i cittadini a risparmiare tempo da dedicare a sé stessi e alla propria famiglia, avere una maggior capacità di spesa, vivere più serenamente la vita di tutti i giorni e avere accesso a formazione e altre opportunità di riscatto sociale”.

La prossima auto per il 41,3% degli italiani sarà ibrida

L’auto ibrida conquista gli italiani, che nel 41,3% dei casi sceglieranno di acquistarla quando dovranno cambiare automobile. Secondo un’inchiesta Doxa, dal titolo Noleggio ed elettrificazione nella mobilità del futuro, realizzata per AMINA (Associazione Mediatori Italiani Noleggio Auto), dopo l’auto ibrida, con una quota del 29,3%, gli italiani sceglieranno un’auto elettrica, e il 23,3% di loro una a motore tradizionale. Se si considerano le modalità di acquisizione della prossima auto la proprietà resta quindi quella preferita (65,9%), ma il noleggio a lungo termine guadagna quote di mercato anche tra gli utenti privati, attestandosi al 28%. Il 6,1% degli italiani ha infatti in programma di passare all’uso di servizi di mobilità in sostituzione dell’auto in proprietà.

Il noleggio a lungo termine è valutato positivamente

Per quanto riguarda la valutazione espressa sulla conoscenza del servizio di noleggio a lungo termine, il 74% ha fornito una valutazione positiva, suddivisa tra sufficiente (36%), buona (32%), ottima (6%).
Di contro, il 26% ha fornito una valutazione negativa, suddivisa tra una conoscenza mediocre (20%) e nulla (6%). Grazie ai dati elaborati nell’inchiesta è stato possibile anche realizzare un identikit di chi conosce meglio il noleggio a lungo termine: uomo, tra 35 e 44 anni, con un alto livello di istruzione e proveniente da Sud e Isole. Lo stesso identikit corrisponde al profilo del maggiore interessato al passaggio ai servizi di mobilità in sostituzione dell’auto in proprietà.

Poco ferrati sulle nuove tecnologie del settore automobilistico

L’inchiesta offre anche una panoramica riguardo al livello di conoscenza dichiarato dagli intervistati in merito alle nuove tecnologie disponibili nel settore automobilistico. Per quanto riguarda il full hybrid, il livello di conoscenza dichiarato ottiene una valutazione pari a 6,2 (in una scala da un minimo di 1 a un massimo di 10) e quindi appena sopra la sufficienza. Sotto la sufficienza si pone invece il livello di conoscenza del Mild Hybrid (5,2), mentre la tecnologia Plug-In Hybrid ottiene una valutazione pari a 5,5. Si torna sopra la sufficienza con la trazione elettrica, il cui livello di conoscenza è stato valutato con un punteggio pari a 6,2. Molto più bassa la conoscenza della trazione a idrogeno (4,7).

Passaggio alla mobilità elettrica: quanti anni sono necessari?

Quanto al numero di anni necessari per completare il passaggio alla mobilità elettrica, il 40% degli italiani pensa che ci vorranno da cinque a dieci anni, mentre per il 25% ci vorranno da dieci a venti anni. I più ottimisti hanno indicato due anni (5%), e coloro che hanno indicato un periodo di tempo tra due e cinque anni sono il 19%. Ma ci sono anche coloro che hanno espresso una visione pessimistica dei tempi necessari: il 7% ha dichiarato che saranno necessari più di venti anni, mentre per il 4% questo passaggio non si completerà mai.

Il Manager Etico e la trasformazione digitale

Uno dei motori dell’impennata della trasformazione digitale è stata la pandemia, che ha portato le imprese a dover intraprendere azioni forti, e che ha reso lampante a livello globale l’importanza di adattarsi rapidamente a cambiamenti di grande portata. L’integrazione della tecnologia digitale modifica radicalmente il modo di lavorare, ma porta con sé anche un cambiamento culturale. Le aziende si trovano a gestire diverse esigenze, non facili da far coesistere: oltre a promuovere l’uso della tecnologia devono affrontare l’impatto del cambiamento sulle persone. Nasce quindi l’esigenza di una nuova figura, il Manager Etico, professionista con le competenze per concludere progetti tecnologicamente complessi e focalizzarsi sulle persone.

Specializzarsi è necessario, ma sono richieste anche competenze diversificate

“Spesso, le persone all’interno delle organizzazioni percepiscono la trasformazione digitale come una minaccia – spiega Alain Onesti, Digital Innovation Manager e autore di The Ethical Digital Transformation -. Compito del manager etico è quindi studiare un piano di transizione aziendale che metta al primo posto proprio l’aspetto umano, attuando ove necessario politiche di re-skilling e up-skilling”.
Le skills trasversali e le soft-skills sono importanti quanto quelle specifiche. La formazione di un professionista resta cruciale, ma la capacità di adattamento ha un valore incalcolabile. Il modello di riferimento a cui le aziende si stanno orientando è quello americano, caratterizzato dalla valutazione positiva di esperienze diverse. Specializzarsi è necessario, tuttavia è sempre più richiesto avere competenze diversificate, maturate in diversi ruoli e settori, così da portare in azienda una visione innovativa.

In che modo la tecnologia può essere implementata in modo etico?

Le organizzazioni devono abbracciare la trasformazione digitale per soddisfare le aspettative dei clienti, ed è necessario saper rispondere alle dinamiche del mercato con un’agilità sempre maggiore, gestendo accuratamente progettazione, sviluppo e implementazioni dei servizi digitali. L’avvento di ogni nuova tecnologia va gestito in modo controllato affinché sia un vantaggio. Disporre di meccanismi digitali avanzati può essere di aiuto per il lavoratore, ma l’implementazione deve tradurre le nozioni etiche in comportamenti professionali utili alla trasformazione digitale. Obiettivo? Riuscire a mantenere un profilo di moralità pur continuando a muoversi in mercati altamente competitivi. Nessuna azienda trae vantaggio a essere considerata immorale.

L’etica non dovrebbe essere considerata uno strumento di marketing

Alain Onesti individua alcuni principi etici da seguire, per mettere a punto comportamenti organizzativi che promuovano fiducia e integrità. Innanzitutto, rendere la privacy e la sicurezza una priorità assoluta. Le persone devono avere fiducia nei servizi e nei dati digitali che utilizzano, l’integrità dei dati deve essere garantita. Inoltre, va incoraggiata una mentalità morale nell’azienda, e va posta attenzione ai pregiudizi, una delle cause più comuni di comportamento errato. Un’azienda di successo nell’economia digitale non solo riconosce concetti come fiducia, integrità, giustizia, riservatezza e trasparenza, ma li applica attivamente. L’etica non dovrebbe essere considerata uno strumento di marketing, ma un insieme di comportamenti messi in pratica da tutti coloro che sono coinvolti nella trasformazione digitale.

Bicicletta, anche per gli italiani è il mezzo di trasporto più sostenibile

Uno dei temi più importanti legati alla sostenibilità è riferito necessariamente alla mobilità: il modo in cui ci spostiamo, infatti, impatta in modo significativo sul pianeta. In questo contesto, la maggioranza degli italiani ritiene che l’uso della bicicletta svolga un ruolo importante nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e del traffico, ma oltre la metà sostiene che andare in bicicletta nella propria zona sia troppo pericoloso. Sono alcune delle evidenze emerse da un sondaggio Ipsos -condotto in 28 Paesi, tra cui l’Italia- che ha indagato le principali opinioni dei cittadini in merito all’utilizzo della bicicletta. L’indagine rileva un consenso internazionale sul ruolo chiave che le bici svolgono per ridurre le emissioni di carbonio e, più in generale, il traffico. Non solo, in tutti i mercati esaminati la bicicletta riscuote consensi da parte della cittadinanza e si registra anche un ampio sostegno per dare loro la priorità nei nuovi progetti infrastrutturali. 

Qual è il punto di vista degli italiani?

In Italia, il 57% degli intervistati afferma di saper andare in bicicletta e il 49% di possederne una da poter utilizzare personalmente per i propri spostamenti. Il 26% afferma di utilizzare la bicicletta per fare attività fisica e soltanto il 10% per raggiungere il proprio posto di lavoro o studio. Infine, l’8% afferma di utilizzare i sistemi pubblici di condivisione delle biciclette (bike sharing). Bisogna, tuttavia, sottolineare che soltanto il 6% degli italiani non ha accesso a un’automobile da poter usare (la percentuale più bassa tra tutti i 28 Paesi esaminati). In linea generale, è il 37% degli italiani che va in bicicletta almeno una volta alla settimana quota che si riduce al 13% tra quanti dichiarano di utilizzare la bici come mezzo di trasporto principale per un tragitto di 2 chilometri; preceduta dalla camminata a piedi (42%) e dall’utilizzo della propria automobile (29%).

La bici riduce le emissioni di CO2, ma per molti i ciclisti rappresentano un pericolo

La maggioranza degli italiani (88%) ritiene che l’uso della bicicletta svolga un ruolo importante nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e del traffico (85%). Tuttavia, oltre la metà (62%) ritiene che andare in bicicletta nella propria zona sia troppo pericoloso. La prevalenza dell’uso della bicicletta per fare commissioni o per spostarsi è maggiore nei Paesi in cui è maggiormente percepita come un mezzo di trasporto sicuro (ad esempio in Cina, Giappone e Paesi Bassi).
Il 57% degli italiani considera la bicicletta una tendenza urbana e nonostante l’alta percentuale di accordo -più di 1 intervistato su due- rimane tra le più basse dei 28 Paesi esaminati, occupando la venticinquesima posizione dopo Corea del Sud (56%), Giappone (47%) e Ungheria (41%). Più nel dettaglio, il 76% degli intervistati italiani ritiene che i ciclisti della propria zona spesso non rispettino le regole del traffico (percentuale più alta tra tutti i 28 Paesi esaminati e superiore di 12 punti alla media internazionale) mentre un altro 70% dei rispondenti sostiene che i ciclisti rappresentino un pericolo tanto per i pedoni quanto per le automobili o moto/motorini (soltanto in Giappone si registra una percentuale più alta pari all’82% e un distacco di 11 punti con la media internazionale del 59%).

Il design italiano e la sfida alla sostenibilità 

Secondo il rapporto sulla Design Economy della Fondazione Symbola, condotto con Deloitte Private e POLI.design, in Italia il settore del design conta 30mila imprese e 61mila occupati, che nel 2020 hanno generato un valore aggiunto pari a 2,5 miliardi di euro. Si tratta di iImprese distribuite su tutto il territorio nazionale, con una particolare concentrazione nelle aree di specializzazione del Made in Italy. Tra Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto si localizza il 60% delle imprese. Tra le provincie primeggiano Milano (15% imprese e 18% valore aggiunto nazionale), Roma (6,7% e 5,3%), Torino (5% e 7,8%).

Milano è la capitale del design Made in Italy

La capitale del design italiano è Milano, capace di concentrare il 18% del valore aggiunto del settore sul territorio nazionale. Milano è anche sede del Salone del Mobile e del Fuorisalone, una delle più grandi manifestazioni al mondo dedicate al design, che quest’anno celebra la sua sessantesima edizione. Questa tendenza fa il paio con quella generale, visto che le imprese e i professionisti del design svolgono le loro attività prevalentemente nei centri metropolitani, dove hanno la possibilità di godere di una maggiore visibilità. Infatti, quattro su dieci realtà operano all’estero (44%, 8,9% extra UE), mentre la restante quota opera soprattutto a livello nazionale (45%) o solo su scala locale (10,8%).

Usare materie prime sostenibili e ottimizzare le risorse

Essere davvero sostenibili implicherà saper uscire da una dimensione focalizzata solo sulla progettazione e sull’ottimizzazione di prodotti. Se la maggioranza dei progettisti e delle imprese del design si sente complessivamente preparato sul tema, dichiarando competenze di alto (33,9%) e medio livello (55,1%), l’offerta per la sostenibilità attualmente si concentra sulla durabilità (57,6%) e sulla riduzione dell’impiego di materie prime ed energia (43,4%). Il punto d’incontro tra domanda e offerta dei servizi di design si concretizza già oggi nella progettazione con materie prime più sostenibili e nell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse. Tra i settori che trainano la domanda di servizi di design sostenibile, primeggia il settore arredo (70%), seguito da automotive (56%), immobiliare (ceramiche, pavimenti, elementi strutturali, 38%), abbigliamento (30%) e agroalimentare (13,3%).  

Un sistema formativo distribuito lungo tutto il territorio

Quanto alla formazione dei futuri designer italiani, si tratta di un sistema formativo distribuito lungo tutto il Paese, con 81 istituti accreditati per un totale di 291 corsi di studio. Complessivamente, i designer formati sono 9.362, di cui due terzi risiedono al Nord, in particolare in Lombardia (49,8%). La stima sul tasso di occupazione dei laureati magistrali in design a cinque anni restituisce un valore del 90%, superiore alla media del complesso dei laureati magistrali biennali in Italia. Di questi, l’84% svolge una professione coerente con l’ambito del design.